Lei mi crede pianista in un bordello.
No, non sono impazzito! :-) Ho semplicemente rubato il titolo a un famosissimo libro di Jacques Séguéla, una delle star della pubblicità mondiale. Era il 1979, i ruggenti anni Ottanta erano alle porte e le società occidentali si preparavano a diventare società consumistiche mature.
Nel bel mezzo di quei fermenti Séguéla scrive il suo libro e lo fa provocando sin dalla copertina. Ma siamo sicuri che si tratti solo di una provocazione? O forse Séguéla sta cercando di dirci qualcosa in più?
Strumenti “vecchi” per bisogni nuovi
Se è preferibile che mamma sappia che suono il piano in un luogo che generalmente non fa impazzire le mamme, significa che la professione del pubblicitario è nuova, controversa, oscura… e quindi difficile da comprendere. Così, nel dubbio, meglio che mamma non sappia!
In realtà ad essere nuova, all’epoca, non era tanto la professione in sé (la pubblicità esisteva da un pezzo!) ma la forma che stava assumendo per rispondere ai bisogni – questi sì nuovi! – che stavano emergendo in quegli anni.
E in fondo, fatte le dovute differenze, non è proprio quello che sta accadendo oggi al counseling? Ho già cercato di chiarire di cosa parliamo quando parliamo di counseling. E se non c’è chiarezza sulla definizione di counseling, figuriamoci su quella di counselor!
La mia sensazione è che, al di là delle beghe teoriche, in molti ancora non riescano ad afferrare questa professione perché sta prendendo forma. Anche quella del counselor è infatti una professione che usa strumenti “vecchi” per rispondere a bisogni nuovi. Quali?
Modernità liquida
Che ti piaccia o meno, siamo figli della modernità liquida. Dobbiamo a Zygmunt Bauman, fra i maggiori sociologi al mondo, questa efficace metafora. Per Bauman la modernità nasce dallo sfaldamento delle vecchie certezze, che poco a poco si sono sciolte sotto i nostri piedi: le grandi ideologie, istituzioni un tempo granitiche – come la famiglia e lo Stato – la nostra stessa identità.
I legami si indeboliscono fino a liquefarsi, ogni scelta diventa leggera e reversibile, l’impegno e il sacrificio sono messi al bando perché pesanti. L’imperativo è soddisfare i propri desideri nel presente, il cittadino diventa un consumatore e la comunità da porto sicuro si trasforma in uno sciame inquieto.
Eccoti un breve video, registrato in occasione di una conferenza che ho organizzato un po’ di tempo fa, in cui Bauman parla dell’identità al tempo di Facebook.
Qualcuno potrebbe essere tentato di dare a Bauman del gufo… beh, diciamocela tutta, proprio ottimista non è! Personalmente credo che nel suo pensiero ci sia una buona dose di paura per gli enormi cambiamenti in atto e questo probabilmente l’ha portato a mettere l’accento sugli aspetti negativi, a scapito delle tante opportunità che il nostro tempo offre.
A parte questo, con buona pace dei cacciatori di gufi, la sua analisi mi convince: l’aumento dell’incertezza è un dato innegabile.
Alla ricerca di una bussola
I post più cliccati su Facebook, dopo le foto di gattini ovviamente, hanno più o meno tutti la stessa struttura: i 5/10 modi per, o come fare a… conquistare un uomo/una donna, avere successo, raggiungere il nirvana, farsi il selfie più cool e chi più ne ha più ne metta.
Corsi e libri che insegnano come fare qualcosa, dal punto croce all’ipnosi, sbancano. In palestra il top è avere il personal trainer. In tv dominano la scena i coach, nuove star dei tempi moderni.
Qual è l’elemento che accomuna tutti gli esempi citati? Semplice, il desiderio – in molti casi un vero e proprio bisogno – che qualcuno ci indichi la stella polare, aiutandoci a surfare tra le acque agitate della modernità.
Marinai nel mare in tempesta della modernità liquida, cerchiamo un segno, un faro che ci indichi la presenza della terraferma. Desideriamo un porto dove poter sentire i piedi che toccano il suolo e placare la nostra fame di stabilità. Vogliamo sentirci sicuri e avere in tasca una bussola che ci indichi la via da seguire, per scongiurare il pericolo di finire naufraghi tra le onde.
Orientamento, ecco cosa cerchiamo. Abbiamo bisogno di orientarci in un mondo che ha fatto del cambiamento repentino il proprio mantra. Andiamo alla ricerca di un filo di Arianna da seguire per non perderci negli intricati cunicoli della vita. Bramiamo strumenti per affrontare le acque agitate della modernità.
Non stupisce allora che prendano sempre più piede figure professionali come il coach, il trainer, il mentor o – eccolo qui – il counselor, che in modi diversi rispondono allo stesso bisogno profondo: imparare a surfare.
E tu? Pensi che Bauman “gufi” o la sua analisi ti convince? :-)
PER APPROFONDIRE
9 Dicembre 2019
Buongiorno,
onestamente la domanda mi nasce spontanea: e perché mai dovrei affidarmi a una persona che…è solo un persona come me e non sono i corsi di comunicazione, di ascolto attivo, di psicologia ecc. che sanno dare stabilità nel mare della società liquida. Ci vuole ben altro spessore personale per essere bussola in questo mare.Il counselor sa ascoltare, il counselor ti fa vedere le cose più chiaramente, non ti propina nulla, il counselor ti aiuta a capire te stesso, a vedere le tue potenzialità…non mi sento così incapace . penso che anche nelle difficoltà, nessuno sia così incapace da aver bisogno di un qualcuno d’altro che lo aiuti a “vedere se stesso”, a vedere cosa? Chi sei veramente? I tuoi veri desideri? le tue potenzialità che ignori? Ad allargare la visione del tuo problema? Nel fare questo, l’operatore non è mai così neutrale, ha un paradigma di riferimento che orienta le sue tecniche, il suo modo di lasciare spazio all’altro, di far attenzione a certe cose, piuttosto che ad altre nel colloquio. ha un visione antropologica dell’uomo sua personale e propria della teoria che lo orienta nel suo lavoro (e magari non ne ha nemmeno consapevolezza). Sono un “quasi dottore in psicologia”, non lo dico nel senso di “lei non sa chi sono io”, per carità ma per dire che so di cosa parlo (anche in Università esiste pure il corso di counseling psicologico, oltre a tutto il resto) e la mia osservazione va sia a counselor che a psicologi (al di là della diatriba legale in atto fra le due figure che non è argomento in questa sede).La psicologia, perché di questo si tratta, di scienza psicologica, è meravigliosa, ha fatto passi da gigante soprattutto con le neuroscienze ma, a mio avviso, questi non sono gli usi che la elevano, se così vogliamo dire.L’uomo non ha più un Dio, non gli serve più, l’uomo onnipotente, studia, comprende per suonarsela e cantarsela da solo sulle domande importanti della vita ma la psicologia non serve a questo.Ci sono altri ambiti che si occupano di questo come la filosofia e la religione. Per questo parlo di ben altro spessore, per questo penso che nella “crisi”, nella “confusione e disorientamento” personale e sociale o arriva un messaggio nuovo che non mi possono dare né counselor, né psicologi in quanto tali o grazie lo stesso, per me è troppo poco. L’uomo continuerà ad illudersi di capire, di aiutarsi da solo ma…nulla di nuovo di fatto.
Perdoni il mio modo troppo diretto, non me ne voglia, non intendo offendere nessuno ma l’argomento mi sta molto a cuore.
Grazie per il tempo e la pazienza,se avrà voluto leggere questo mio commento.
9 Dicembre 2019
Grazie Stefania. Ho riletto più volte questo suo ricco e appassionato commento. E non mi sento affatto offeso, anzi, mi provoca. Nell’accezione positiva di questo verbo. Nemmeno io credo in chi dispensa verità: qui ho detto la mia sui “paraguru”, mentre qui ho riflettuto, a partire dalla lettura dell’intrigante saggio dello psicologo danese Svend Brinkmann, sulla smania di migliorarsi continuamente. Anche il tema dello “spessore” mi risuona, sono infatti convinto che per fare alcune professioni, oltre alla formazione, sia necessaria una qualità umana particolare. Uno spessore non comune, appunto. E qui cominciano le domande che mi ha suscitato. Mi colpisce che un “quasi dottore in psicologia” affermi che la scienza psicologica oggi non basta più. E capisco che non è una polemica contro i counselor, ma una riflessione ben più profonda. A cosa pensa quando scrive che servirebbe un “nuovo messaggio”? E, mentre lo elaboriamo, dobbiamo rinunciare a supportare chi sta attraversando un momento di difficoltà nella ricerca delle proprie (non delle nostre) soluzioni? Mi piacerebbe approfondire questa discussione. Grazie ancora.
10 Dicembre 2019
Buongiorno,
in realtà l’argomento è complesso e non mi sento ancora “adeguata” per poterlo sviscerare però posso dire che, dietro a una domanda di aiuto, che si tratti di disagio, difficoltà o di vero e proprio disturbo, c’è sempre dietro un buco, un vuoto affettivo, esistenziale che è ciò che fa crollare la persona in situazioni temporanee o in modo più strutturale e permanente. Le “crisi” non sono un crollo per le persone che hanno una fede Vera, vissuta nel quotidiano,reale, non una idea astratta, quale che sia questa fede. Io osservo le persone e alcune sono diverse nel modo di affrontare la vita e anche di fronte a situazioni davvero pesanti, si piegano, cadono, hanno dubbi, si arrabbiano ma sembra più uno sfogo “superficiale”, sotto, sotto, qualcosa non si rompe, non si disperano, non esauriscono le forze e la creatività della mente. E’ come se non fossero mai sole. Sono umani. È l’umano. È da qui che sento la debolezza dell’intervento in studio. L’umano è di più, ha bisogno di altro ma chi lo deve aiutare in studio, ha mai avuto crisi esistenziali? Si è mai posto domande profonde, crude, senza nascondersi nulla? È stato capace di cercare, di restare con i suoi profondi dubbi e darsi il tempo di cercare risposte, senza pregiudizi, senza cedere alla paura, all’angoscia? È capace di affidarsi a Qualcuno di più grande di lui e di riconoscere i limiti e il bisogno umano?
Rogers aveva una grande fiducia nelle risorse e nel “positivo” che c’è nell’uomo, capace di affrontare le sue ombre interne e di adattarsi al Mondo. Questo è molto bello ma se significa illudersi che l’uomo è più che altro luce e che si salverà dai suoi mali con questa luce, opportunamente messa in rilievo da un operatore…beh, è pura illusione. Lo sappiamo tutti, è evidente quando persone care ti feriscono, quando tu ferisci persone care per esempio e non lo si fa perché in quel momento non conosci le tue risorse, la tua capacità di amare ma perché lì tu hai scelto te stesso. L’uomo è luce e ombra, non è più luce che ombra o meglio può esserlo, può DIVENTARLO, ma non se pensa di basarsi SOLO sull’aiuto di costrutti umani, forza umana. Chi aiuta gli altri non è un santone, un convertitore di anime perdute, no per carità, anzi sarebbe un disastro uno scenario del genere, ma è qualcuno che oltre alle scienze e alle tecniche psicologiche, conosce le profondità luminose e buie dell’umano e riconosce che esiste un Dio reale e attore attivo nell’esistenza umana. Come sempre è la mia sensibilità e un parere personale, lo preciso perché so che quando mi esprimo su certi argomenti lo faccio in modo quasi da pontificatrice. È ovvio che però io ci credo fermamente in questo e spero in una evoluzione generale della formazione degli operatori in campo psicologico e affini.
Grazie per questo spazio che mi ha voluto dare.
11 Dicembre 2019
Grazie di aver accolto il mio invito, Stefania. Ora ho chiaro cosa intendeva scrivendo che “la scienza psicologica, da sola, non basta”. Leggendo questo commento percepisco che ha riflettuto molto su questo aspetto e che, nonostante non si senta adeguata a parlarne, le sue riflessioni sono profonde. Mi sento di aggiungere soltanto un pensiero. Sono convinto anch’io che l’essere umano non sia riducibile alla sola sua natura fisica. C’è una dimensione spirituale – a cui persone e culture diverse danno nomi e dedicano rituali diversi – che rende l’esperienza umana differente da quella di tutti gli altri esseri viventi. E non tenerne conto significa perdere di vista, insieme, la ricchezza dell’essere umano (nelle luci e nelle ombre) e una chiave fondamentale per comprendere le ragioni del suo benessere. O dei suoi malesseri. E, sì, finché la scienza (psicologica e non solo) non farà i conti seriamente con questa dimensione sarà sempre monca. Lo stesso vale per gli operatori. A curare, il più delle volte, è la relazione. E gli operatori migliori tra quelli che ho incontrato hanno fatto tutti i conti con questa dimensione. Sviluppando una qualità umana non comune: la vera fonte delle loro capacità terapeutiche. Grazie ancora di questa piacevole occasione di scambio e un grande in bocca al lupo per il suo percorso di studi.
12 Aprile 2016
In questi tempi di crisi, anche di valori, si cerca aiuto e risposte, Ma affidarsi a un counselor senza laurea in psicologia e tutto il resto necessario per essere abilitati a una professione che ha a che fare con il disagio psicologico, e’ pericoloso. Anche la salute psichica va tutelata. È’ da irresponsabili oltre a non essere etico far soldi in questo modo. Non si gioca con la salute delle persone…
12 Aprile 2016
Ciao Mario,
ti ringrazio dello stimolo, che mi dà modo di ribadire un concetto a me molto caro.
Il counselor NON si occupa di disagio psicologico; non deve né può (per legge) farlo. Questo è un punto fondamentale, l’ho chiarito in questo post.
In presenza di disagio psichico comprovato, un counselor adeguatamente addestrato (e sulla necessità di una preparazione adeguata io sono intransigente!) è tenuto ad inviare il cliente dallo psicoterapeuta. Punto.
Concordo con te sul fatto che la salute psichica vada tutelata. Il fatto è che non tutte le difficoltà personali sono riconducibili al disagio psichico. Esiste anche il disagio relazionale che, se prolungato, può trasformasi in disagio psichico. E in questo perimetro un counselor PREPARATO può operare.
Sono sempre stato contrario a quei corsi che millantano di trasformarti in un grande esperto della natura umana in due o tre weekend. E sono il primo a condannare questo atteggiamento cialtronesco, che trovo irresponsabile e pericoloso.
Per questo continuo a studiare. E per questo ho dato vita a questo spazio di riflessione. Perché è anche grazie a discussioni come la nostra che si possono tracciare dei confini, per separare ciò che è etico da ciò che non lo è… un’operazione anche per me quanto mai necessaria.
12 Aprile 2016
Roberto, come ha da poco sentenziato il TAR del Lazio, la pratica del counseling e’ un atto tipico e proprio dello psicologo, il quale si occupa di problemi relazionali senza che ci sia un disturbo psicologico. In quest’ultimo caso la figura di riferimento e’ invece lo psicoterapeuta. Il counselor sembra quindi voler fare concorrenza allo psicologo, piu’ che allo psicoterapeuta. Anche se ci sono eccome counselor che fanno una sorta di psicoterapia. Esperienza personale e di persone che conosco. E non sai i danni psicologici arrecati o peggiorati, oltre a quelli economici.
Il counselor, a differenza dello psicologo, non ha competenze diagnostiche per rilevare se c’è’ o no un disagio psicologico. Tu affermi che “un counselor adeguatamente addestrato” avrebbe questa competenza. Qui si apre un mondo: scuole di counseling qua e la’ che si rivelano cialtroneria pura. Tu magari sei una persona capace, con un senso dell’etica, ma altri che fanno i counselor no, e vogliono lavorare. Per evitare questi problemi ti consiglio comunque tra gli altri studi anche l’università’, il tirocinio e l’esame di Stato. Per criticare e superare occorre prima conoscere in profondità.
12 Aprile 2016
Mario, ti posso garantire che sono a conoscenza della sentenza del TAR. E ti dirò di più, ne ho discusso a lungo con alcuni psicoterapeuti.
Comprendo e condivido la necessità di separare il grano dal loglio, con le dovute cautele però, altrimenti – cambiando metafora – rischiamo di buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Da sociologo, non posso ignorare che alcune delle battaglie condotte dagli ordini professionali (tutti, nessuno escluso) hanno anche una valenza politica, che ha poco a che fare con il contenuto della specifica battaglia e molto a che fare con la necessità di difendere il perimetro del campo professionale. Da questo punto di vista, gli esami servono più a regolare gli accessi che a certificare la qualità dei candidati.
L’Ordine degli Psicologi è un’istituzione e, comprensibilmente, sta cercando di proteggere i confini della professione a vantaggio dei suoi associati. Se così non fosse, non si spiegherebbe perché, ad esempio, non si scaglia contro il coaching.
Evidentemente c’è qualcosa, nella forma che il counseling sta assumendo in Italia, che suscita più anticorpi di quanti non ne susciti il coaching. Sarebbe interessante andare a fondo e indagare le ragioni…
Altra ambiguità: nelle scuole di counseling insegnano molti psicoterapeuti, a dimostrazione di come il fronte “contro” sia tutt’altro che compatto.
Detto ciò, io non sono per una deregulation spinta che, come te, vivo come potenzialmente pericolosa. Le regole servono, a partire soprattutto dai percorsi formativi, purché ci si confronti con serietà avendo il coraggio di ammettere dove finisce la sacrosanta preoccupazione per la salute delle persone e comincia la “politica”.
Conosco per esperienza diretta realtà illuminate che lavorano in equipe: psicologo, counselor, psicomotricista, tutor dell’apprendimento… che hanno scelto di unire le forze, mettendo in rete esperienze e competenze. Chapeau!
Discutiamo di regole, di percorsi di formazione, di aggiornamento professionale, di deontologia, di come allontanare i ciarlatani. In maniera costruttiva. Questa è la strada, per me.
Poi, per quanto riguarda il mio percorso formativo (laurea in comunicazione, dottorato di ricerca in sociologia e master universitario in counseling), non ti nascondo che la mia fame di conoscenza mi spingerebbe a completarlo con una laurea in psicologia… chissà, ai posteri l’ardua sentenza! :-)
16 Marzo 2016
Trovo estremamente interessante ed estremamente utile il domandarsi chi sia il counselor e in cosa consista il counseling. Mi sembra che lo sforzo di ricercare un’identità, da un punto di vista del ruolo e della professionalità, sia la strada che il mondo del counseling deve intraprendere.
Concordo anche su Bauman (anche se non ho approfondito molto), è un po’ gufo, ma in molte cose ha visto giusto. Ciò che trovo oltremodo stimolante è quanto questa società “liquida” sembra non riuscire a comunicare una “verità” sull’uomo (cosa che probabilmente le società precedenti cercavano e riuscivano a fare); perciò la persona oggi è in imbarazzo anche concettualmente. LA difficoltà diviene definire se stessi e il mondo che ci circonda, trovare una propria collocazione, una misura.
Eppure tra le righe di tutte le parole scritte, lette e ascoltate, in mezzo alle immagini, i legami reggono e la mente reagisce, quasi che questa libertà spogli l’esistenza delle persone di tutto ciò che è superfluo, permettendoci di sperimentare quella “verità” di cui sentiamo il bisogno.
Strumenti “vecchi” per bisogni nuovi … Bravo Roberto!!!
16 Marzo 2016
Ho riletto più volte il tuo commento e ad ogni lettura trovo una sfumatura nuova. Si sente la tua confidenza con la civetta di Minerva… ;-)
“Eppure i legami reggono e la mente reagisce”; sono d’accordissimo con te.
Ed è proprio qui che inciampa Bauman. Questo mondo lo disorienta, forse a tratti lo spaventa, e la paura lo rende meno acuto nel vedere come le persone – nei fatti – trovino il modo per rimanere a galla. Alcune riescono addirittura a imbracciare la tavola da surf, per sfidare le onde con consapevolezza.
Ogni fase di passaggio, oltre a molte minacce, porta con sé anche grandi opportunità. All’opportunità di sperimentare la “verità” sinceramente non avevo pensato. E ammetto che mi piace molto l’idea di averla.
Grazie Alessandro!