La felicità, tutto sommato, è fatta di ingredienti semplici.
Sono un accumulatore compulsivo di libri. Ne compro (e ne ricevo in dono) più di quanti riesca a leggerne. Tanto da aver creato per loro un’apposita sezione della mia libreria.
Scegliere – tra quelli in paziente attesa di essere letti – quali portare con me è sempre un piccolo dilemma amletico. Ma alla fine ho scelto.
Quattro libri molto diversi, per nutrire e allenare competenze e sensibilità differenti.
Quattro chiavi per stimolare la mia curiosità e guadagnare qualche diottria nel tentativo di decifrare il tempo complesso in cui viviamo e le tante cornici che attraverso quotidianamente:
- “Story or die. O racconti o sei fuori. Fare storytelling coinvolgente e persuasivo con le neuroscienze” di Lisa Cron
- “L’ impresa è un romanzo. Attraversamenti nella narrativa sul mondo del lavoro” di Luca Vignaga
- “Chi comanda qui? La scienza della leadership per guidare il team e l’organizzazione al risultato” di Leonardo Dri
- “Il coraggio di non piacere. Liberati dal giudizio degli altri e trova l’autentica felicità” di Ichiro Kishimi e Fumitake Koga
Dicevo, la felicità è fatta di ingredienti semplici. Due sono ritratti in queste foto. Ce n’è però almeno un altro che non si vede. Ma è fondamentale.
Il tempo. Per assaporare tutto questo.
Story or die. O racconti o sei fuori
Qual è stata l’innovazione più cruciale per la nostra evoluzione?
Il pollice opponibile? No. L’invenzione della ruota? Neppure. C’è uno strumento ancora più potente, senza il quale difficilmente saremmo sopravvissuti a lungo come specie: le storie. O, meglio, la capacità di raccontarle.
Sì, le storie sono un meccanismo di sopravvivenza. Grazie a loro siamo in grado di dare un senso al passato e al presente, ci consentono di immaginare il futuro, anticipando opportunità e pericoli. Insomma, lo “storiese” – concedetemi questo (brutto, lo so) neologismo – è la lingua parlata dal nostro cervello. Ecco perché le storie sono così potenti.
Pagina dopo pagina, con un misto d’intelligenza ed ironia, Lisa Cron “solleva il cofano” e conduce alla scoperta dei meccanismi che muovono il motore di una storia. Di qualsiasi storia. Meccanismi che sono profondamente legati a come funziona il nostro cervello.
Spingendosi oltre le colonne d’Ercole del classico e pluricitato viaggio dell’eroe. Passo dopo passo l’autrice condivide un metodo per costruire storie trasformative, capaci di vincere la (naturale) resistenza umana al cambiamento.
Alla base c’è l’ascolto profondo, di noi stessi (qual è il nostro obiettivo?) e – soprattutto – del pubblico al quale vogliamo parlare. Anzi, che vogliamo “trasformare”. Il tutto corredato di schemi, domande, casi pratici ed esercizi per allenarsi a creare storie capaci di cambiare le persone che toccano.
Se proprio volessi trovare un neo a questo libro, la prima parte mi è sembrata un po’ prolissa e, in alcuni punti, vagamente dispersiva. Sarebbero bastate forse poco più di metà delle pagine e il succo non si sarebbe perso. D’altra parte, però, Lisa Cron ama raccontare storie. E poteva essere altrimenti?
“Quando una storia ci ha catturato vuol dire che ha hakerato il nostro cervello, che ne siamo coscienti o meno. Quando la storia finisce, ne usciamo cambiati. E poi andiamo fuori e cambiamo il mondo“.
Per chi è, quindi, questo libro? Semplice, per chiunque abbia il desiderio o la necessità – professionale o meno – di raccontare storie trasformative.
Un’abilità che può diventare un vero e proprio potere. Da usare con saggezza.
Come ogni potere degno di questo nome.
L’impresa è un romanzo
La lettura che più mi ha provocato tra quelle che mi hanno accompagnato in questo scampolo d’estate.
È stato a lungo nel limbo dei libri in attesa di essere letti. L’ho preso in mano più volte, ma ho scelto di attendere di avere il tempo e, soprattutto, la giusta disposizione d’animo. E sono felice di averlo fatto.
“L’impresa è un romanzo” è un saggio ‘strano’, difficile da incasellare. Colto, ma non sussiegoso. Elegante. Pacato e al contempo pungente nei quesiti che pone. Quesiti che interrogano chi l’impresa la vive. O la fa. E nelle brecce che apre. Interrogativi che, a distanza di giorni dall’aver girato l’ultima pagina, ancora mi pungolano; in attesa di risposte.
Luca Vignaga l’impresa la conosce. Si percepisce. Così come conosce la letteratura. E accompagna i suoi lettori tra le pieghe dell’una o dell’altra.
Il sistema aziendale sta cambiando. Il lavoro sta cambiando. Stanno cambiando i lavoratori. Profondamente. La pandemia ha accelerato e fatto emergere nuovi (macro e micro)trend. Sono emersi nuovi bisogni. Su tutti, quello di un senso che va oltre il denaro, “i schei” si direbbe dalle mie parti, nel mitico Nordest.
Le classi dirigenti sono chiamate a dare risposte concrete, con cui costruire un futuro. La letteratura, il romanzo, può illuminare la strada e aiutarci a fronteggiare la complessità sistemica che stiamo vivendo? Un romanzo è una storia. Un‘impresa è una comunità di persone che tracciano e percorrono una storia. E vengono condizionate dai racconti che producono.
La letteratura ci salverà, sembra dirci l’autore. Da lettore accanito, non posso che unirmi a questa speranza.
Un libro che non può mancare nella biblioteca dei LeadEretici.
Il coraggio di non piacere
Non ho mai amato particolarmente i manuali di self-help.
Non metto in dubbio che possano avere un loro utilità. Solo, molte volte, li trovo un po’ semplicistici. Eccessivamente appiattiti su un ottimismo a tutti i costi, ostentato e spesso sganciato da un’analisi approfondita della realtà che vogliono influenzare.
Anche quando le soluzioni sono semplici, i problemi sono (quasi sempre) complessi. Sistemici. E l’analisi non può che esserlo altrettanto.
Ecco, questo libro è differente.
Il primo aspetto che lo rende interessante è lo stile: ricalca il dialogo socratico. Tra un saggio filosofo (maestro) e un giovane insoddisfatto (allievo), che cerca di confutarne le tesi. La lettura scorre fluida e assai piacevole.
Il secondo elemento d’interesse è il contenuto. Pagina dopo pagina, si viene accompagnati alla scoperta della psicologia di Alfred Adler, che propone una visione alternativa a quella freudiana.
Ammetto che non conoscevo in profondità questo approccio. Alcuni aspetti mi convincono di più, altri meno. In estrema sintesi, se Freud sostiene che i traumi del passato condizionino il nostro presente (visione eziologica) Adler ribatte che – di per sé – nessuna esperienza causa deterministicamente il nostro insuccesso. O il nostro successo. Tutto dipende dal senso che attribuiamo a ciò che ci accade.
Pensateci, la nostra vita è una serie di momenti vissuti nel presente. Immaginateli come tanti punti. L‘identità è la storia che raccontiamo per unire e dare una parvenza unitaria (sensata, appunto) a questi punti. Una storia che può essere cambiata.
Ok, fin qui niente di nuovo, direte. Lo diceva anche Virginia Satir che “la vita non è come dovrebbe essere. È quella che è. È il modo in cui l’affronti che fa la differenza“. Se però aggiungessi che i nostri comportamenti disfunzionali – tutti – rispondono a un obiettivo ben preciso e che, prendendone consapevolezza, possiamo cambiare traiettoria, la cosa si farebbe decisamente più interessante.
Notte dopo notte, i protagonisti ne passeranno insieme cinque, i lettori imparano a conoscere gli elementi fondamentali del pensiero di Adler, da cui ricavare spunti interessanti per riflettere sulla propria esperienza e (provare a) cambiarla. Se causa sofferenza.
“I problemi derivano tutti da relazioni interpersonali“. La pensa così, Adler. E il sociologo che in me non può che sentirsi provocato da questa affermazione. Ecco perché, per riprenderci la libertà (di essere felici), quello che ci serve è, in fondo, il coraggio di non piacere (a qualcuno).
Un libro che consiglio a chi cerca – più che risposte – qualche buona domanda per nutrire il potenziale. Il nostro e quello dei contesti che attraversiamo.
Perché se tu cambi, il mondo (intorno a te) cambia.
Chi comanda qui?
Rovistando in un vecchio cassetto, nella casa in cui sono cresciuto, tra carte ingiallite e penne che ormai non scrivono più, ho riportato alla luce un piccolo tesoro. Una manciata di conchiglie; il bottino di una “caccia” svoltasi, un bel po’ di anni fa, sulla spiaggia della mia infanzia. Oggi questa tipologia di conchiglie non c’è più. Mi sono chiesto perché.
La risposta che mi sono dato è in questa foto. “Chi comanda qui?” è l’ultima lettura vacanziera di questa mia strana estate. La scrittura è fluida e assai godibile; chi conosce o segue l’autore ritroverà lo stile – diretto, a tratti scanzonato e, talvolta, irriverente – di Leonardo Dri.
Gli “occhiali scientifici” con cui Dri guarda alla leadership provengono dalla cassetta per gli attrezzi della scuola di Palo Alto, di cui Watzlawick (il papà dei famosi 5 assiomi della comunicazione umana, per capirci) è l’esponente più noto, e dal kit di strumenti della terapia breve strategica di Nardone, che di Watzlawick è stato allievo.
Il più grande punto di forza di questo approccio è considerare le disfunzioni di un sistema come il frutto non di menti malate ma di relazioni interpersonali disfunzionali.
Se i problemi sono relazionali, possono essere “curati” intervenendo nel qui ed ora. Imparando a vedere (e cambiare) il modo in cui li stiamo interpretando. E usando la comunicazione. Che, non a caso, è una delle competenze chiave (fondata sull’ascolto) di chi esercita leadership.
Attingendo a piene mani alla propria esperienza professionale, Dri tratteggia la figura del leader ideale, che potrebbe essere racchiusa in questa frase: “tanto più il capo si rende inutile, quanto più l’efficacia e la performance del team migliorano“.
Il libro tocca anche temi cruciali come la selezione del personale e lo smart working, riflettendo su come costruire organizzazioni efficaci. A rendere il tutto ancora più godibile, le infografiche illustrate da RebelHands. Da leggere!
Sono d’accordo su tutta la linea? Diciamo che mi piacerebbe provocare l’autore su un paio di punti che trovo potenzialmente “scivolosi”.
Dimenticavo, e le conchiglie che c’entrano? Le conchiglie della mia infanzia sono sparite per almeno tre motivi: inquinamento ambientale, turismo di massa (che porta a utilizzare macchine per pulire le spiagge) e pesca intensiva.
La leadership, quella vera, pone al centro la sostenibilità e si prende cura degli eco-sistemi che contribuisce ad attivare.
Chi esercita questa leadership non depaupera le “spiagge” che tocca, ma ne preserva la bellezza. E si pone la domanda: cosa ne sarà di queste “conchiglie” tra 30 e più anni? E che cosa posso fare io per preservarle e farle crescere?
La leadership non spreme. Ri-genera.