“Quanto vorrei che i membri del mio team la smettessero di confabulare e si comportassero da persone adulte!”. “Non capisco perché non abbia il coraggio di dirmi quello che pensa, sembra che mi tema”. “Vorrei che prendessero delle decisioni in autonomia e invece non fanno un passo senza prima chiedermi il permesso”.
Nella mia esperienza in organizzazioni e aziende tra loro molto diverse, mi è capitato spesso di accogliere sfoghi di questo tipo provenienti da alcuni team leader.
Sul campo ho imparato che, tante volte, una buona domanda è la consulenza migliore e più potente che si possa offrire:
tu come ti stai relazionando con queste persone?
Le stai trattando come adulte o le parole che dici e i comportamenti che metti in atto quando sei in loro presenza richiamano quelli di un papà o di una mamma che si sta rivolgendo al suo bambino?
Relazioni: simmetriche o complementari?
Quasi tutti conoscono Paul Watzlawick per i suoi famosi assiomi della comunicazione umana. Il più noto, e citato, è “Non si può non comunicare”. In realtà Watzlawick e colleghi, attingendo a piene mani agli studi pionieristici del loro maestro Gregory Bateson, hanno scoperto molte altre cose.
Una di queste è la distinzione tra relazione di tipo simmetrico e relazione di tipo complementare.
In una relazione simmetrica entrambi gli interlocutori si pongono sullo stesso livello e ciascuno tende a rispecchiare il comportamento dell’altro. L’esempio classico è la relazione fra pari, come quella che lega due amici.
Nelle relazioni complementari, invece, ciascun interlocutore assume la posizione complementare rispetto all’altro. Due esempi sono la relazione medico-paziente e quella genitore-figlio. In queste relazioni il ruolo degli interlocutori determina la struttura della relazione e quindi della comunicazione.
Ecco, il punto è che l’equazione funziona anche al contrario.
Se quando comunico con un collega adotto uno stile di comunicazione genitoriale, di fatto lo sto invitando a entrare in una relazione genitore-figlio.
Se lo sto contattando da una posizione di tipo papà, è molto probabile che lui mi risponda da una posizione di tipo figlio, attivando con me una relazione complementare.
E le probabilità che questo accada aumentano all’aumentare della distanza gerarchica che mi separa da lui.
Prima di accusare i colleghi di essere immaturi, quindi, è bene che mi faccia una domanda: come sto comunicando con loro?
In che tipo di relazione li sto invitando ad entrare? Se li sto invitando in una relazione di tipo verticale (io sono il più forte e tu devi ubbidirmi) non potrò certo stupirmi se la risposta che otterrò sarà di dipendenza e scarsa proattività.
Organizzazioni paterne, materne e adulte
Ho già scritto di come l’Analisi Transazionale possa aiutarci ad analizzare le disfunzioni di una cultura organizzativa. Ci sono ovviamente molte altre applicazioni possibili. Vediamone un’altra.
Alla base dell’approccio dell’Analisi Transazionale troviamo il modello tripartito degli stati dell’io Genitore-Adulto-Bambino, che può essere applicato con successo anche alle organizzazioni. E sono molte le cose che ha da dirci.
Organizzazioni Paterne
Le organizzazioni degli esordi esprimevano culture organizzative di stampo fortemente paterno: relazioni top-down, focus su norme e valori, leadership intesa come comando. La persona qui è concepita come un bambino da guidare.
Organizzazioni Materne
Intorno agli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso hanno cominciato a prendere piede modelli più orientati alla cura, alla protezione e allo sviluppo delle persone, che hanno dato vita a culture organizzative di tipo materno: relazione top-down e bottom-up, focus sulla comunicazione e sul feedback, leadership intesa come influenza. La persona è concepita come un adolescente di cui prendersi cura.
Organizzazioni Adulte
Recentemente sono nate e si stanno sviluppando sempre più culture organizzative improntate a una visione completamente diversa, adulta e “abilitativa”: relazione peer-to-peer, focus sul coinvolgimento e sull’ascolto attivo, leadership intesa come processo di attivazione. In queste organizzazioni la persona è considerata un adulto con cui allearsi a partire da una posizione alla pari (relazione simmetrica).
Un’evoluzione non lineare
Non si tratta ovviamente di un’evoluzione lineare. Questi tre modelli convivono, a volte persino nella stessa organizzazione.
Va da sé che, quando la cultura organizzativa ha una matrice fortemente paterna/materna, le persone che la vivono faticheranno a mettere in atto stili relazionali differenti da quello dominante.
A partire da queste consapevolezze non stupisce più se, in alcuni contesti organizzativi, le persone si comportano come “bambini” o “adolescenti”… è probabile che stiano rispondendo in maniera adeguata a una chiamata precisa.
Come attivare stili relazionali adulti?
La buona notizia è che è possibile abbandonare modelli relazionali asimmetrici, in favore di stili relazionali adulti. Come?
Con la consapevolezza del “terreno relazionale” nel quale ci muoviamo e delle regole che lo animano.
E con la leadership. Non con una leadership qualsiasi però.
Un buon leader più che un condottiero è un coach. Considera le persone come dotate di risorse utili per far fronte alle situazioni e offrire un contributo attivo e creativo all’organizzazione. Le supporta e le mette nelle condizioni di esprimere il loro maggior potenziale.
È consapevole che l’organizzazione è un sistema frutto di processi in continuo movimento e che i problemi, così come le possibili soluzioni, non stanno tanto nell’unità/nella persona A o nell’unità/nella persona B, ma nella relazione che li unisce.
Crea connessioni e favorisce conversazioni.
È un adulto tra adulti.
È un attivatore.
E, soprattutto, costruisce con le persone.
Dunque se vogliamo favorire all’interno dell’organizzazione nella quale lavoriamo uno stile relazionale di tipo adulto, dobbiamo essere noi per primi – e il discorso vale in particolar modo per i leader – a relazionarci con i colleghi in maniera simmetrica e, quindi, adulta.
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